59° ARRIVO DEL PROGETTO SPAGNA

Dalmine (BG) 12 novembre 2016.

Ancora tanta attesa ripagata dagli sguardi di chi ancora non sa che finalmente ha raggiunto la salvezza…. I maltrattamenti sono finiti, la fame in perrera resta un lontano ricordo. Sicuramente non potranno mai dimenticare le cure dei nostri volontari spagnoli che li hanno salvati, curati e preparati alla loro nuova vita, senza di loro tutto questo non sarebbe possibile!

 

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OCCHI STANCHI, ALLO STESSO SOLE.

Cinquantanovesimo appuntamento. Sabato. Ore 15.00. Dalmine.

– Vieni per fare un video? Io faccio le foto… – mi chiese Gil, con uno stringato messaggio. Era sera tardi, e probabilmente era stato in ufficio per monitorare tutto il giro del fine settimana. Lo fa spesso, e le giornate non hanno abbastanza ore.
Non ci ho nemmeno pensato. Perché avrei dovuto? Solo il pensiero mi eccitava nonostante sapessi che lavoro mi avrebbe atteso.
– Ok ci sono – scrissi un secondo dopo. E sabato fui là, nonostante il giorno prima avessi fatto il giro si mezza Italia per lavoro. Con Sabrina, con Haley e con Miki. A fare festa.
Perché Gil prepara una festa al mese. Tutti i mesi o quasi. Ci sono i preparatori di matrimoni, e ci sono i preparatori di feste. Lui e Silvia preparano feste. Le-Feste.

Sabato 12 novembre fu una bella giornata di autunno, un regalo inaspettato. Un sole basso illuminava tutto il bergamasco, e una luce calda lo avvolgeva come una carezza delicata. I raggi della nostra stella penetravano incuranti e decisi le finestrature della tensostruttura che avrebbe fatto da palco. Prima da est, al mattino, poi ombra verso mezzogiorno, poi luce insolente nel tardo pomeriggio. Ma c’era un motivo. E il motivo fu chiaro qualche ora più tardi il nostro arrivo.

Il sole era il filo conduttore della giornata. In quella più che mai.

Ho sempre avuto paura di apparire. Problema mio. Una specie di inadeguatezza costante sempre puntualmente smentita dalla realtà. Cercai parcheggio nei pressi del corso adiacente, tagliato dalle ombre nette degli alberi senza foglie del mio mese. Erano piccoli cenci bianchi e neri che formavano litografie moderne sull’asfalto, sulle pareti delle case, su ogni cosa. Cavalletto, macchina foto, videocamera. Tutto qui.

– Dove sarà? – mi chiesi. Eppure l’indirizzo era quello. Girato l’angolo, i primi galgo in passeggiata, vestiti con i trapuntini. – Ok, è qui – sospirai. – Dai, che inizia il ballo – mi dissi. Non c’era musica. L’orchestra doveva ancora arrivare.

Invece no. Un breve vialetto di ghiaia portava nell’ampio cortile dell’oratorio di San Giuseppe di Dalmine. Tutto all’ombra. Il caldo era un’altra cosa. Subito, attorniata da una lingua di cemento liscio, l’enorme locale chiuso da tende trasparenti che era il teatro della giornata. Dietro di esso, il prato dove si gioca a pallone. Dietro ancora, più in là, il parco giochi dei bimbi. Bel posto, accogliente e sicuro. Come gli oratori di una volta, ma moderno e pronto per l’energia dei nostri anni. Quel sabato era in attesa silente di noi.

I più vicini erano già lì, con i loro musi lunghi al guinzaglio. Non so quanti fossero, ma erano parecchi. Dentro, nel teatro, Gil e i suoi avevano già predisposto il gazebo-simbolo del marketing ENPA, i collari, il canendario, tutto pronto. Un lavoro senza sosta, il loro, già dal mattino.

Sapevo che sarei stato bene, ma non così tanto. Entrare in quel locale grande e quieto era come entrare in casa. Si respirava un’attesa unita ad un’eccitazione fiduciosa e pacata. Pronta a esplodere in gioia. Aspetta, aspetta, sono in ritardo.
– Incidente…, non si sa bene dove, ritardo di un’ora circa – disse Gilberto ancora prima di salutarmi. Si sarebbe fatta lunga. Bastava guardarlo. Ma sorrise lo stesso. Lo fa sempre.

Nemmeno salutai Silvia, l’abbracciai forte e basta. Mi sorrise tirata dall’ansia. Sapevo che cosa l’attendeva, feci finta di niente. Dietro di lei, nera come un’ombra di notte, Athena e il suo costante imbrago di sicurezza a doppia “H”. Stranamente non tremava, era solo diffidente. Era lei.

Girai lo sguardo, e non vidi che levrieri. Attaccati a loro, con un molle cordone ombelicale di stoffa, i loro adottanti. Non riconoscevo nessuno.
– Perdonatemi – dissi. Non ricordo mai i nomi, eppure ricordo i gesti, l’aspetto, le movenze. I nomi delle persone no. Quasi tutti mi salutarono presentandosi. – Ti leggo sempre, complimenti…! – sentii dire, appunto da non so chi. Parole preziose come l’oro. Anche di più.

Girai lo sguardo e non vidi cani e umani, ma un gruppo. IL-GRUPPO. Il risultato di centinaia e centinaia di ore di impegno concentrato su Bergamo e la vicina Brescia. ENPA, Gilberto e i suoi avevano fatto un ottimo lavoro. Avevano creato dal nulla amicizie e legami forti dall’idea di salvare un cane. Fantastico clima, fantastiche persone, magici quadrupedi smilzi e quieti.

In giornate così, l’attesa è tutto. In feste così, l’attesa è la parte principale del piacere di trovarsi. Quel sabato non fece eccezione. Non sopporto di attendere, mai, e mi misi a scattare foto. La luce non era buona, il sole stava timido dietro lo stabile di fronte, proiettando solo ombre bluastre su di noi. Non mi importava. E la reflex dialogò con occhi profondi, con zampe di coniglio, con code ossute, con fianchi segnati dai colpi della vita precedente. Ne carpì il dolore, e la voglia di riscossa da tutto quello che fu. E’ brava, la reflex, a rilevare i particolari che non vediamo…
Ed eccolo, uno dopo l’altro, il gruppo dei levrieri ENPA! Lì, tutti uno vicino all’altro, o sparpagliati per il prato in cerca di sole. Erano un po’ miei. Sì, li trovai tutti o quasi tutti insieme. Come a Coccaglio. Erano passati solo due mesi, e sembrava una vita. Qui erano in versione in invernale, ma sempre composti e discreti al limite dell’imbarazzo.
Anche di loro non ricordo i nomi, e spero di essere perdonato, perché sono in tantissimi e tutti veramente, veramente fantastici!

C’era anche Cristal, la mascotte, il simbolo del salvataggio di tutti loro. Si avvicinò e mi leccò l’obiettivo. Aveva capito tutto. Ma non parlerò di lei perché quella non era la sua festa: dico solo che quel cane è un folletto surreale, che nei boschi ascolta e parla con gli gnomi. E gli elfi rispondono felici.

Un’ora e mezza dopo, Caronte stava avvicinandosi a noi. Era ora. Il furgone bianco dalla Spagna aveva arrancato a grandi passi la strada che da Genova portava a Milano, per poi seguire alla volta di Bergamo. Erano in un ritardo pazzesco, perché la struttura era prenotata fino ad una certa ora, e la festa non sarebbe stata che un veloce rinfresco in piedi.

Tappa fondamentale per il rilascio dei cani era il controllo veterinario, a Boltiere.
– Prendiamo il pickup, vieni con me – fece Gilberto. Presi l’attrezzatura, non salutai nessuno, e saltai su.
– Dimmi una cosa – gli chiesi serio, – Chi te lo fa fare? –
Attesi. Lui chiuse la porta, e infilò la chiave sotto il volante. Si tolse il berretto.
– Guardali negli occhi, e capirai. – sospirò, e mise in moto.

Guardai fuori le ombre lunghe di metà pomeriggio. Ok, ho capito. Capii che c’era molto di più di quello che si vede. E andiamoli a vedere, allora, questi occhi…

A Boltiere, tutto tranquillo. In un posto così, ritrovi la serenità. Non c’ero mai stato, eppure tutti gli ultimi arrivi erano stati lì. Ero io l’assente ingiustificato. Solo io.
Con un sincronismo invidiabile, pochissimi minuti dopo di noi, Caronte fece capolino al cancello scorrevole che celava l’esterno al lungo viale alberato. Il lampeggio della luce gialla, e scivolò verso di noi, parcheggiandoci a lato l’ennesima volta. Un approdo provato e riprovato decine di volte.

Caronte, nella realtà, è un furgone canuto come la barba del personaggio mitologico. Al suo interno, in gabbie più o meno spaziose, anime in attesa.
Nella realtà, Caronte non è un vecchio con gli occhi di fuoco, ma sono due donne toscane, stanche e pazienti, stremate da più di quindici ore di traversata. Nella realtà, Caronte sono loro. Che scendono piano dai sedili, prendono i passaporti blu tenuti insieme con un elastico, e te li mostrano. Nella realtà, Caronte sono due operatrici instancabili che portano al collo un pendaglio brunito di levriero, e alle orecchie sagome di gatti in acciaio lucido.
Mitologia applicata. Questo vidi lì, nel sole squillante di un sabato pomeriggio.

Notai un accorgimento che mi fece vibrare l’anima. Probabilmente nessuno lo noterà mai. Dalle bocchette del cruscotto, nell’abitacolo, erano innestati due grandi tubi di plastica che attraversavano tutto l’imperiale del furgone, ed arrivavano dietro, nel vano delle anime in attesa.
– Hanno il riscaldamento standard, ma abbiamo fatto la modifica per farli stare più al caldo. Così stanno meglio – mi sorrise la ragazza col pendaglio levriero. Apprezzai molto quel particolare. Poco mi importava del resto. Faceva freddo, e stare tutte quelle ore fermi rendeva il tutto ancora più gelido.

– Sara, apri dietro, grazie! – invitò Gil. Sapeva già tutto, lui. Come lo sapevo io. O lo immaginavo, io. Ma non si può mai immaginare del tutto che cosa si vede quando la barca di Caronte apre la stiva.

Rimasi allibito. Questa è la parola giusta. Allibito. Due rottweiller, enormi e pacifici, due femmine. Due podenchi, uno bianco e uno fulvo. Un pastore tedesco bellissimo e inquieto. Un terrier che non smetteva di abbaiare. Un chiwi. Una chiwi: Amandine. Tre levrieri.
Rimasi allibito perché mi aspettavo solo galgo. Non sapevo nulla e nulla volevo sapere, prima, di quel carico. La Spagna aveva vomitato cani di tutte le tipologie, in quel trasporto, come spazzatura indifferenziata era lì, tenuta in gabbia al caldo. Come immondizia non la voleva più.
Ma non era immondizia: erano cani di razza massacrati dallo stress e dall’esistenza penosa che quella terra li ha forzati ad avere.
Non potevo crederci. Non potevo crederci.

In basso a destra, c’era Prince.

Parlerò solo di lui, perché parlando di lui parlo del carico tutto, come di un’unica grande immensa sensazione di rivalsa sul massacro che l’uomo perpetua ogni anno laggiù.

Prince è il cane di Silvia. E’ il suo cane perché quando è entrata nel recinto dove stava, a Malaga, quel levriero l’ha scelta e non l’ha mollata mai. Mai. Mai per un istante. Non era il più bello. Non era il più sano. Non era il migliore. Ma era il suo. Talmente legato a lei che ha dovuto adottarlo. Ed è tornata in Italia col magone di non poterlo vedere se non dopo molte settimane. E dopo molte notti insonni.

Seppi di Prince da Gilberto. Me lo fece vedere a video, e mi disse che Silvia era persa di lui. Non mi ci volle molto a capirlo, quanto lo vidi dietro quel portellone bianco.

Stava con un altro galgo, nero, avvolto in una calda coperta fucsia. Lo vidi solo dopo, penetrando nel buio della stiva con lo zoom della telecamera. Non lo avrei visto, altrimenti. Quel cane voleva scomparire. Era certo.

Prince no. Prince era ansioso, e superava le sbarre zincate della gabbia col suo naso rosa e bellissimo. Sul muso, i segni delle torture per aver calzato una museruola di latta. Lo avevo visto con Gilberto. Bastardi senza cuore. Cicatrici di traverso su un muso fulvo scuro. Non le potevo accettare. Mai nella vita. Eppure lì, in quel posto lì, erano i segni distintivi di quel levriero. Il mio Miki ha il corpo pieno di pallettoni da caccia, Prince tagli bianchi sul muso fulvo. Va così. La Spagna va così. Cicatrizza i suoi figli così. Conia i suoi gioielli così.

Aveva gli occhi stanchi. Era stanco. Stanchissimo. Stremato. Gli toccai il naso. Lui mi annusò, gli dissi – Ehi, ciao! – e sospirò. Uno come me non vuole sensazioni diverse da quella. E piangi, ma non mi feci vedere. Lo fotografai di nascosto, e lo mandai a Silvia, che dall’altra parte di certo celava in tirati sorrisi un’ansia enorme. Athena aspettava in un contenitore di plastica rosa il fratello rosso e bianco. “Sbrigateviiii !!!” mi scrisse. Sorrisi. E le accarezzai dolcemente il cane che avevo davanti.

Aveva gli occhi stanchi. Di una stanchezza estrema che solo un galgo può sopportare. I suoi occhi verde-marrone fissarono il sole che fiondava generoso i suoi raggi nel cielo quasi serale.

E’ lo stesso sole, cane, lo sai?
E’ lo stesso sole che hai visto nella terra dove sei nato.
Lo stesso. Identico. Uguale. Sempre lui.
Qui, però, è un’altra sponda. Qui quel sole illumina non l’abisso, ma la pace. C’è pace qui. C’è pace qui.
E caldo. E pulizia. E coperte e cucce morbide. E affetto. E carezze. E passeggiate nel verde. E cibo buono. E giochi con Athena, che ora è timida ma aprirà il suo cuore e cambierà…
Tutto quello che non conosci ancora, di bello, qui c’è.
Tutto quello che non hai mai visto, qui lo troverai.
Non avere dubbi.
Ancora qualche istante, e poi sarà Vita.

Sospirò. E si accucciò per l’ennesima volta tra le coperte in pile al centro della gabbia. Guardò sempre, instancabilmente fuori. Il sole. Respirò l’aria nuova. L’umidità di questi luoghi qui. E al verde. E al silenzio.
Appoggiò il muso sulle lunghe zampe smagrite. E attese senza emetter suono.

Il pastore tedesco, inquilino compresso e teso nella gabbia sopra la sua, ringhiava come fanno i pastori quando un estraneo si avvicina al gregge. Gli dissi una parola con voce bassa, e si acquietò un poco. Il terrier, dietro di loro, non smetteva di abbaiare dall’ansia. I podenchi, uno per lato, erano curvi su loro stessi, con le orecchie larghe e molli, sfiduciati e tristi.

Ditemi, cani, che cosa avete visto, laggiù?
Non lo so, ma posso immaginarlo.
E posso dirvi con certezza che, qualsiasi incubo abbiate incontrato e vi abbia violentati, qui non c’è.
Ma quelli parevano sordi.
Su di loro ci sarebbe voluto un lavoro incredibile di costruzione della fiducia.

Il veterinario arrivò in ritardo, per un’urgenza dell’ultimo minuto.

I documenti erano tutti a posto, i chip erano ok.

Qualche minuto dopo, la stiva di Caronte si richiuse, e gli occhi dei devastati ritrovarono il silenzio del buio.

Dieci minuti dopo, però, il sole di Dalmine li accecò di nuovo.

E con lui, la platea che attendeva esausta e infreddolita in teatro.

Il resto, furono applausi, lacrime di gioia, abbracci e carezze lievi.

Il tutto, nei raggi di un sole caldo, che benedì quel sabato e tutti i suoi nuovi arrivati, ad ingrandire il gruppo delle anime salvate di Bergamo.

Alla prossima. Il 17 dicembre. E saranno sessanta.

Testo: Fulvio Rodda
(c) 11/2016 by ENPA – Progetto Spagna

 

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